miércoles, 14 de noviembre de 2012

"Storie, individui, emozioni ecco il mio documetario da camera"

LA REPUBBLICA. Nov 14, 2012

FESTIVAL DEI POPOLI

"Storie, individui, emozioni
ecco il mio documetario da camera"

Intervista col regista argentino Andrés Di Tella, al quale la rassegna dedica fra Odeon e Spaziouno la retrospettiva completa dei suoi film. Il 14 l'autore incontra il pubblico per presentare il suo lavoro su guerriglia Montoneros, dittatura e desaparecidos

di PAOLO RUSSO

Andrés Di Tella ha 54 anni, una faccia simpatica, aperta. E intelligente. Un modo di raccontare le cose acuto e appassionato. Una storia familiare importante (il nonno Torquato arrivò a Buenos Aires dagli Abruzzi, divenne imprenditore di grande successo e, da socialista, finanziò riviste antifasciste pubblicate in Francia venendo perciò privato del passaporto; il padre Torcuato, sociologo e storico di fama con una cinquantina di libri in curriculum, alcuni tradotti anche in italiano, fondatore dell’Istituto Di Tella, faro della cultura argentina nei Sessanta oggi divenuto università, segretario della Cultura del primo governo Kirchner, è da due anni l’ambasciatore d’Argentina a Roma). Dopo la laurea in letteratura a Oxford, Di Tella lavora per varie tv anglosassoni e argentine, scrive sui giornali e fotografa. All’inizio dei Novanta trova nel documentario il compendio ideale delle sue aspirazioni fra narrazione del reale e ricerca visiva. Mettendo insieme una carriera che ai generosi riconoscimenti internazionali aggiunge ora una delle due retrospettive del Festival dei Popoli 2012 (l’altra è dedicata a un mostro sacro, Raymond Depardon): otto lunghi e corti dal ’90 a oggi, che fra Odeon e Spaziouno (orari www.festivaldeipopoli.org; 055/295051) raccontano - col suo ormai inconfondibile stile intimo, da camera, emozionale, col regista spesso in campo a diretto contatto coi personaggi che fa parlare dopo essersene conquistata la fiducia - la Storia della sua Argentina, dallo sterminio degli indios 
di fine Ottocento (El pays del diablo) alla guerriglia peronista (Montoneros: una historia) alla figura di Macedonio Fernandez (il 15 alle 17), il maestro di Borges, e le storie, come quella della famiglia del regista, nato da una madre indiana e poi esule con tutta la famiglia a Londra (Fotografias). Per spingersi anche sul terreno dell’indagine sui media (La television y yoReconstruyen crime de la modelo a Spaziouno il 15 alle 17, Prohibido a Spaziouno il 16 alle 16.45) e della pura sperimentazione audiovisiva (Hachazos, sulla vita e l’opera del regista Claudio Caldini, nume dimenticato dell’underground argentino, all’Odeon il 17 alle 17.30). Un affabulatore, un contastorie per immagini e parole sempre in cerca delle vicende degli individui nella Storia smarrite fra le onde dei grandi eventi. Il 14 (Spazionuno, ore 17), dopo Montoneros (ore 15) Di Tella incontra il pubblico e sabato 17 (posti già esauriti) tiene un laboratorio per autori.

Come è nato questo suo stile così privato di girare documentari?«Il mio è in effetti un lavoro sull’intimità, il contrario di quello che ci si aspetta da un documentario, che per tradizione parla del sociale, del contesto e delle categorie di individui ma non di quello che sta dentro la persona. A me invece interessa molto quello che passa nella testa e nel cuore delle persone, la loro unicità, l’esperienza degli individui e non il gruppo che rappresentano: per ciò mi dedico alle storie private, credo che attraverso il racconto dell’esperienza individuale si illumini anche quella sociale in un modo che permette allo spettatore di creare la sua propria relazione con ciò che vede e sente nel film. Un esempio: Ana, la persona la cui storia mi ha permesso di raccontare quella dei Montoneros, non è la figura più rappresentativa del movimento, non è stata un capo e un eroe, ma con lei lo spettatore può avere affinità e sintonia. Ho fatto almeno 50 interviste e indagini per quel film, e con lei ho sentito che ci si poteva mettere a tu per tu mettendo da parte discorsi, generalizzazioni e ideologia: anche non avendo vissuto militanze e guerriglie, puoi per un momento metterti nelle scarpa di Ana. Così facendo credo si possa capire in modo anche emozionale un fatto e avere al contempo il massimo delle informazioni. Sulle quali privilegio l’esperienza: oggi c’è secondo me un pesantissimo, pericoloso eccesso di informazione, la scelta di trasmettere anche emozioni insieme alle informazioni è la mia risposta al trauma di esserne sopraffatti e quindi non poterle elaborare. Il mio documentario intimista, da camera, cerca di uscire da questo flusso fatto solo di informazioni e aprire un dialogo fra le persone. Quel che cerco è che lo spettatore senta che nei miei film c’è un altro individuo che gli sta parlando».

Un modo di lavorare in cui la fiducia diventa fondamentale... 
«Costruire una relazione è il problema più importante. Noi documentaristi siamo un po’ come vampiri, viviamo del sangue degli altri, ma ho imparato dall’esperienza che le persone si offrono, offrono il loro sangue e la giugulare perché è una necessità e un istinto raccontarsi con la propria storia. Tutti stiamo sempre aspettando solo l’occasione, alcuni di raccontarsi, altri di sapere. Chiaro, serve fiducia per arrivarci e bisogna saperla costruire questa fiducia: il mio lavoro è proprio costruire una narrazione che rifletta la relazione che ho saputo costruire e la mia propria esperienza nel conoscere quella tal persona. E il film è esattamente la sintesi della mia esperienza di quella relazione: la cosa fondamentale è essere fedele a quella esperienza, all’incontro e al dialogo che ne sono scaturiti. La prima regola è: non falsificare mai la mia esperienza in funzione di una idea preconcetta. Tornando ad Ana, c’erano in ballo l’ideologia, la discussione e il compromesso politico, il perché lei entrò nella guerriglia. La fiducia nella nostra relazione le permise di raccontarmi che fu perché si innamorò di Juan durante un suo comizio, lui era un leader e un bell’uomo, e lei appena lo vide sul palco sognò di viverci una avventura insieme: politica e amore erano la stessa cosa. Per un ragazzo oggi è impensabile prendere in mano un mitra per ideologia, ma può capire che sia successo per una scelta di vita insieme, una sorta di immersione in un mondo».

Con Montoneros lei ha affrontato una pagina complessa e sanguinosa della storia argentina, una storia molto difficile da raccontare...

«Una storia complessa, non c’è dubbio, che fa i conti con un fenomeno unico come il peronismo. Ora in Argentina c’è un governo di sinistra e peronista, lo era anche negli anni Novanta ma di destra. In questo paradosso si capisce che il peronismo è prima di tutto un movimento popolare: la classe operaia ci sta dentro, dunque la sinistra ha sempre avuto la necessità di legarsi al peronismo. I montoneros erano guerriglieri di estrazione cattolico-nazionalista e marxista contro il liberalismo. Pensavano di poter usare il peronismo, ma Peron li espulse, li fece apparire come infiltrati, e invece se ne era servito per abbattere la dittatura militare dell’epoca, quella del generale Lanusse. Dal ’70 al ’75 i Montoneros, che nell’80 non esistevano più, arrivarono ad avere una base popolare enorme e le loro azioni, rapimenti, omicidi, attacchi a obbiettivi militari, furono il pretesto principale per il golpe militare del ’76 che produsse 30.000 desaparecidos, la maggior parte militanti come Ana. Quando nel ’95 ho girato il mio film era tabù parlare della guerriglia: nell’83 al ritorno democrazia ci si rese conto che erano morti 30.000 innocenti, i desaparecidos, e se li presentavo come guerriglieri poteva sembrare che dessi una giustificazione ai militari. Poi, fra il mio film e alcuni libri usciti dopo, si iniziò a riparlare di quell’esperienza, un contributo decisivo venne dall’apparizione politica dei figli dei desaparecidos che reclamavano l’identità dei genitori, volevano sapere chi erano i loro padri e madri e cosa avevano fatto, se era montonero o marxisti dell’Esercito rivoluzionario popolo: divenne anche una questione identitaria, oltre che una tragedia nazionale, una ferita profondissima degli individui e della collettività. Nel governo attuale ci sono molti montoneros: alla fine il peronismo li ha assorbiti. E dal 2003 a oggi prima con Nestor Kirchner e poi con la sua vedova Cristina, anche lei una militante come Ana, sono andati al potere. Come se qui i leader del ’68 fossero nel governo».

Anche la conquista della Pampa nel secondo ottocento è una storia tragica, l’Argentina è il solo paese del Sud America in cui gli indios non esistono praticamente più da oltre un secolo...«La chiamarono la “Conquista del deserto” la campagna con la quale il governo  s’impossessò della Pampa, le grandi pianure a est e sud di Buenos Aires sulle cui risorse agricole e allevamenti l’Argentina creò la sua potenza economica. Fu di fatto una campagna militare di sterminio degli indios quella che si consumò fra 1870 e 1880: la chiamarono “campagna del deserto”, dove deserto significava che per il governo là non c’era nessuno, che per la nazione argentina gli indiani non abitanti ma un problema militare. Per El pays del diablo ho scelto di seguire il giornalista e geografo Estanislao Zeballos, che fu uno degli ideologi della necessità di sterminare gli indios per lo sviluppo della nazione: finita la guerra, rapidissima, fu il primo civile a esplorare i territori da secoli occupati dagli indio nella Pampa e in Patagonia. Di quei luoghi fu anche il primo cartografo: conobbe i pochissimi indio sopravvissuti e imparò la lingua mapuche per capire le descrizioni e la toponimia dei territori. Diventò dunque anche il primo antropologo e storico delle tribù indigene: il  primo antropologo argentino aveva le mani macchiate di sangue. E allora ho sentito il mio debito verso quelle popolazioni e ho deciso di seguire Zeballos perché quelle terre strappate agli indio anche per sua iniziativa finirono poi a beneficio degli immigrati italiani, come la mia famiglia: là era nato il benessere in cui sono nato e cresciuto».

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